mercoledì 18 agosto 2010

Niente casa, niente lavoro. Si fa presto a dire trent’anni

Si fa presto a dire “trent’anni” vissuti in un paese di stragi, e stragisti. In una nazione che ha lenìto, solo con funerali e giornalisti e sindacalisti, il dolore delle vittime. Col collega che ci ha lasciato sua figlia, sul primo binario, e dava di matto, all’epoca. Coi magistrati da soli, in prima linea. Si fa presto a dire trent’anni con una sottile paura che ti assale ogni volta che prendi un treno diretto verso l’Appennino, con l’ossessiva cura di evitare la sala d’aspetto, e di acquistare un giornale da leggere, nel viaggio, per non pensarci su troppo. Si fa presto a dire che lavori, trent’anni, in una Azienda in cui trovi dimenticate nelle fotocopiatrice una copia del manuale di adesione al venerando massone, e ti vedi sopra girare con vorticosa confusione capi e capetti, ristrutturazioni di luoghi e funzioni, in una logica che a tutto risponde fuorché al benessere del cliente, e del lavoro. Senza una logica apparente, se non che intanto il fisco ci incassa di meno, dato che l’Azienda si ristruttura senza fine. Si fa presto a dire che oggi i ragazzi non hanno futuro. Se studiano vanno all’estero, sennò restano a vita coi genitori, senza lavoro, mentre noi l’avevamo. Sì, ma quale lavoro? Alice vedeva i compagni di scuola proseguire gli studi con le borse di studio date ai figli dei liberi professionisti, che dichiaravano redditi inferiori a quelli dei suoi genitori, dipendenti. Non lo sapeva nessuno, trent’anni fa? oppure era un modo, anche quello, di favorire, ieri come oggi, i figli di certe classi sociali? Si fa presto a dire trent’anni, vissuti in un paese dove trovare la casa è impossibile, se non ipotecandoti la vita per trent'anni, per poi vedere che invece le case le fanno, e mangiano i prati attorno, ogni anno centinaia di ettari, e ne restano vuote migliaia, già fatte, perché nessuno ha voglia di metterci mano. Per trent'anni. Alice aveva due genitori, coi quali doveva spesso correre al pronto soccorso - erano vecchi e malati - e ogni volta ci restava otto ore, in fila, paziente, circondata da lamenti e anche sangue, come nei thriller del terzo mondo, per poi sentirsi dire che sì, il posto c’era, ma non nella clinica specialistica , bensì in geriatria, o in medicina generale, dove ogni volta vedeva ragazzini laureandi che non sapevano dove mettere le mani. E lei doveva ogni volta istruirli, anamnesi e allergie, perché la scheda clinica del paziente veniva ogni volta buttata. Oppure la banca dati era diversa, da un ospedale a quell’altro, e nessuno sapeva nulla dell’altro. Eppure era anche contenta, perché nel suo paese, molto spesso, andava anche peggio. Molto peggio. Per trent’anni Alice ha vissuto in un luogo dove hanno deciso che Privato era meglio che Pubblico, e invece di controllare gli appalti, come un privato farebbe per prima cosa, si son cominciati a contare i minuti che occorrono per fare la Tac, oppure l’eco, o anche le visite, perché bisognava produrre ricchezza. Anche nella salute occorre evitare gli sprechi, e la cura dei vecchi è uno spreco, rende poco, anzi, non rende. Nel paese di Alice ci vogliono mesi per ottenere una licenza, di qualsiasi genere, ma occorrono minuti per venir derubati sull’autobus, se solo non tieni in bocca la borsa. Ci vogliono settimane per avere la cartella clinica, ma le esose bollette le paghi ormai ovunque e se tardi un bimestre ti tagliano luce gas acqua. Se hai bisogno di iscrivere tuo figlio ad una scuola a tempo lungo, ti iscrivi sei mesi prima: ma quando lui ci arriva, basta una settimana a sapere che i soldi per la carta igienica non ci sono, e li devi sborsare anche subito. Se invece decidi di fare un figlio, e per caso non nasce nei tempi normali, devi anche pagare per andare all’estero, sborsare milioni, perché nel paese di Alice la vita vien governata solo al momento di nascere, mai dopo. Dopo si può andare in guerra - da volontari, ovvio, e la disoccupazione che picchia costituisce un buon terreno, per aver volontari -; dopo si può esporli all’uranio impoverito, si può lasciarli morire sulle strade il sabato sera, si può farli morire in fonderia, oppure sui tetti, persino per droga, ignoranti, incolti, e facili prede di spacciatori affamati, li lasciamo morire così... in questo Paese. Ogni tanto abbiamo un sussulto, ci guardiamo attorno e li vediamo imbambolati, ai lati delle strade di grandi città, con in mano una birra, alle dieci di mattina, e ci chiediamo: chi sono? Alice, nel suo paese, dopo trent’anni, sente fastidio: ha fatto scioperi, partecipato alle lotte, volontariato, ha urlato, nelle corsie d’ospedale, ha stretto i denti, ha fatto debiti lunghi per avere il suo tetto, ha combattuto trent’anni per avere una qualità migliore. Ma sente fastidio, oggi sente fastidio. Farà la sua parte, ancora, e di nuovo, ma non riesce più ad ascoltare chi finora l’ha fatta vivere così. Le viene la rogna, a sentire certi paroloni: secessione, presidenzialismo, de-localizzazione, tangentopoli, piduisti, pidiellisti, falchi, padanie, appaltopoli, grilli di qua e valori di là, deflazioni, speculazioni, inflazioni, globalizzazioni, sub-prime e finanziarizzazione. Le viene la rogna, a sentire questi tiggì che parlano solo degli altri, di quelli che, eletti al governo, fanno finta, finta di tutto. Fanno finta che lei non esista: qui sta il punto vero. Nel suo paese è successo di tutto, in trent’anni. È mancata solo una cosa: la dignità del vivere, del costruire qualcosa in tempi ragionevoli, dell’incontrare risposte decenti ai bisogni, dell’alzarsi al mattino senza il pensiero: quale casino-ostacolo-problema-insulto dovrò superare quest’oggi?